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Dopo quattro anni ho colto l'occasione per un gruppo di lettura su Gente di Dublino per provarci n'altra volta, sperando che la distanza temporale abbia influito sulla mia capacità di comprendere più a fondo il suddetto testo. In parte è servito. Fortunatamente avevo dei ricordi talmente annebbiati che è stato come leggere ogni racconto - a parte Eveline - per la prima volta, a volte con esiti positivi - vedi I due galanti, ormai eletto a mio preferito -, a volte finiva il racconto e non poteva fregarmene di meno di ciò che mi era appena stato raccontato. O meglio, ero interessata, ma non è stata certo una lettura "di petto". Quasi per niente. Ed io ho capito perfettamente cosa mi ostacola nel poter apprezzare appieno un libro del genere: è che non sono di Dublino, non sono nata nel secolo giusto, e Dubliners riesco ad apprezzarla solo come opera culturale, forse per via della scuola che ci ha ricamato su diversi discorsoni legati al contesto storico, etc, e per una volta cavolo, ha ragione. Ho notato nei miei compagni di lettura lo stesso sentimento comune: sterilità, ma interesse allo stesso tempo, c'è chi fa "mbah", e poi c'è chi, nonostante affermasse di non essere assolutamente coinvolto emotivamente, era lì con la lente di ingrandimento a scrutare il quadro di quello che fu il paese di Joyce, guardandolo come si guarda un progetto anatomico. E il progetto anatomico ha un che di valido, figuratevi. Interessante è notare come questa paralisi dublinese - quali altri scrittori, testimonianze, realtà possono confermarci quanto sia stato acuto l'occhio di Joyce, ad esempio? chi altro ci parla dei Dubliners del suo tempo per poter fare confronti? Sicuramente qualcuno, ma allo stesso tempo un lettore in generale si avvicina a Gente di Dublino senza nessuna possibilità di confronto con altre opere, e la base storica for dummies dice veramente poco. Così l'indagine va molto a interpretazione, ho colto un dettaglio là, ecco il bambino dublinese che cresce e diventa proprio come i suoi genitori, in una sorta di circolo vizioso, libertà attentata che diventa poi oppressione attentatrice per le generazioni future. Insoddisfazione, ambizioni soffocate e quindi meschinità, mediocrità, scarsezza e tutti gli occhi spenti che galleggiano per i racconti, in una sorta di disegno unitario. Non esiste la felicità, c'è solo questo annaspare in una rete soffocante da cui non si può uscire perché non si vuole né ammettere che ci sia, né tantomeno sconfiggerla, evadere. Le deboli risa e sorrisi sembrano una consolazione, l'ennesimo tentativo grossolano di nascondere l'evidenza: ecco le feste che ricacciano in un angolino lo sfacelo che tenta di imporsi costantemente, una finta allegria che non può essere creduta neanche per un istante. E cogliendo dettagli qua e là, frasi significative, comportamenti nascosti da detriti su detriti di frustrazioni e mascheramenti di altre delusioni rimaste inespresse..sembra di cogliere il quadro unitario dei nostri Dubliners: lezione appresa, trattenuti i concetti, curiosità soddisfatta e sentimenti tiepidi, controbilanciati da un interesse altelenante, che scema parecchio negli ultimi racconti. Alla seconda rilettura posso dire di aver dato e di poter vagare per i meandri della letteratura con la coscienza pulita per quanto riguarda il libro di Joyce.